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Una fabbrica palestinese

dicembre 2, 2011

Dopo la visita del campo di Jenin, la nostra comitiva si sposta in campagna e andiamo a visitare una fabbrica d’olio d’oliva. E’ un’edificio immenso, con un grande capannone suddiviso in più aree di lavoro, e un enorme parcheggio all’ingresso. Non mi aspettavo di certo una struttura così grande!

La fabbrica è gestita da una ditta privata e si occupa esclusivamente di trasformazione di prodotti alimentari, mentre le materie prime provengono da una trentina di cooperative agricole della regione di Jenin. Qui si producono non solo oli d’oliva di diverse qualità e gusti, ma anche spezie, frutta secca, olive in barattolo, e altri tipi di conserve. I prodotti sono tutti biologici e il loro acquisto, trasformazione e commercializzazione seguono i principi del commercio equo e solidale. Ne vediamo alcuni esemplari dall’aspetto invitante, impacchettati con gusto e con un’etichetta raffinata, veri prodotti di qualità. Questo significa purtroppo che i costi di produzione sono molto elevati, e infatti tutta la merce viene poi esportata verso l’Europa o gli Stati Uniti per essere venduta in un mercato di nicchia.

Il proprietario dell’azienda ci accompagna per un giro completo e dettagliato dei vari laboratori. La produzione è altamente automatizzata e i macchinari sono tutti nuovi e modernissimi. Un piccolo punto interessante: tutte le apparecchiature vengono da aziende italiane! Qualcuno dei miei amici storce un po’ il naso: non è certo né un laboratorio artigianale, né la tipica piccola cooperativa da cui in genere ci si aspetta che provengano i prodotti equo-solidali. E le descrizioni dei vari processi di disossamento, spremitura, decantazione, immagazzinamento, imbottigliamento, etichettatura, imballaggio, per molti diventano dopo pochi minuti assai noiosi.

Io invece trovo questa visita abbastanza interessante. Se fossi in Italia forse sarei il primo ad annoiarmi. Qui in Palestina però è talmente raro vedere una vera fabbrica e sentire parlare di produzione e vendita, che oggi sono davvero curioso di ascoltare e capire. Magari ci fossero più fabbriche come questa e quindi più opportunità di lavoro per i palestinesi!

In Palestina in generale le industrie sono quasi inesistenti, e la maggior parte delle poche fabbriche presenti nel territorio lavora appunto nel settore alimentare. Mentre l’assenza di industrie pesanti è tipica di tutti i paesi arabi del Medioriente, le industrie leggere potrebbero essere molto più sviluppate. La Palestina però non ha il controllo delle proprie frontiere e dogane: l’importazione delle materie prime e l’esportazione dei prodotti finiti sono controllate e limitate da Israele. E ad Israele ovviamente non conviene che certi settori industriali si sviluppino troppo in Palestina e facciano quindi concorrenza ai propri prodotti. Regole, tasse e procedure burocratiche aumentano i costi e scoraggiano gli imprenditori palestinesi a sviluppare le loro attività.

L’instabilità politica e il rischio di un inasprimento del conflitto sono altri fattori che riducono gli investimenti di capitali e la creazione di nuove imprese. Inoltre, certi costi di produzione in Palestina sono più alti di altri paesi arabi: ad esempio gli stipendi sono mediamente più elevati, e l’acqua e l’elettricità (quest’ultima importata da Israele) costano care. Paradossalmente, la nostra guida ci spiega che l’olio d’oliva importato dall’Italia può costare meno di quello prodotto in Palestina!

La visita dura in tutto un’oretta, e non c’è piu’ tempo per continuare queste riflessioni. Ad ogni modo, mi è chiaro che la situazione economica palestinese è particolarmente intricata e complessa, ed è molto interconnessa e dipendente dall’economia israeliana. Mi piacerebbe approfondire la questione e leggere magari uno studio dettagliato sull’argomento…

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