Vai al contenuto

Risoluzione amichevole

Oggi pomeriggio ho avuto un piccolo incidente. Era una giornata da tregenda: il cielo era plumbeo, il vento soffiava forte e gelido, e la pioggia scendeva ininterrotta. Mentre risalivo con un auto a noleggio la ripida stradina che parte dal Giardino di Getsemani e risale sino al cocuzzolo del Monte degli Ulivi, un’altra auto in direzione contraria è slittata sulla strada in discesa, lentamente ma inesorabilmente, e mi è venuta a sbattere addosso, muso contro muso.

L’altro guidatore era un ragazzo giovane, tale Mohammed, di circa una ventina d’anni. Cercava in qualche modo di difendersi e parlava di responsabilità condivisa; ma la colpa era chiaramente tutta sua. La nostra auto aveva solo danni minori: il paraurti si era leggermente incrinato e la targa era saltata via. Per precauzione ho chiesto alla mia amica Virginia di scattare qualche foto delle due auto. Non sapendo bene quali siano le procedure locali in caso di incidente, ho chiamato prima un mio collega, poi l’agenzia di noleggio; è caduta due volte la linea, l’agenzia mi ha richiamato con un altro numero, e infine ha parlato pure con Mohammed. Nel frattempo la pioggia continuava a cadere e mi infradiciavo sempre di più.

Finalmente il responsabile dell’agenzia di noleggio ha chiesto ad entrambi di raggiungerlo nel suo ufficio per esaminare l’auto e discutere dell’incidente. In questo modo il nostro pomeriggio di turismo a Gerusalemme, già compromesso dalla pioggia, naufragava in maniera definitiva. Mannaggia! Ero davvero nervoso. Per fortuna Mohammed è stato molto onesto ed è venuto con noi dal noleggiatore senza tentare la fuga. E lì ho avuto una piccola lezione sull’arte palestinese di trovare un accordo amichevole e di sistemare questo tipo di faccende.

Innanzitutto appena entrato nell’ufficio ho capito subito che per me il problema era già finito. Il responsabile dell’agenzia con me non ha quasi neppure parlato: aveva già capito da che parte stava la ragione ed era solo interessato ad mettersi d’accordo con Mohammed. Due suoi colleghi hanno verificato velocemente i danni alla nostra macchina. E subito dopo è iniziata la discussione.

Mohammed ha provato di nuovo a difendersi dicendo che non mi ero fermato in tempo. Il noleggiatore ha tagliato corto le sue scuse con un tono sarcastico. Gli ha detto chiaro e tondo: o ci paghi i danni di tasca tua, o ci dai una copia del libretto e della polizza e ci facciamo risarcire dalla tua assicurazione. Mohammed libretto e polizza non li aveva: l’auto era di suo padre e i documenti erano con lui. Sarà stato vero? O era un modo per nasconderci che l’auto non era assicurata? Poco importa: il responsabile dell’agenzia ha preso la palla al volo per chiedergli il nome di suo padre e suo quartiere di residenza, e così è saltato fuori che conosceva uno zio di Mohammed e qualche altro membro della sua famiglia allargata. Gerusalemme Est non è poi così grande…

Inquadrato meglio il suo interlocutore dal punto di vista sociale e famigliare, il noleggiatore ha puntato dritto al cuore della faccenda:- Guarda, un paraurti nuovo mi costa circa 1.000 shekel*; ma per venirti incontro te ne chiedo soltanto 500, e gli altri 500 ce li mettiamo noi. Mohammed ha provato a negoziare ancora per un istante, per strappare un ulteriore ribasso; ma l’offerta era troppo buona per rifiutarla, e in un paio di minuti l’accordo era già concluso.

E io? :- Non ti preoccupare, tutto è a posto, vai pure – mi hanno detto. :- Ho preso delle foto delle due auto e della loro posizione rispetto alla strada, ve le posso lasciare se vi servono. :- Foto? Ma va, non ce n’è bisogno, è un ragazzo del paese, siamo tra amici qua. E così senza modelli da compilare, né documenti, né polizia, la situazione si è risolta lo stesso in maniera amichevole. E noi abbiamo ripreso tranquilli le nostre vacanze.

L’hotel Movenpick, lussuoso ed elitario

Stamattina scrivo da una postazione privilegiata: l’hotel Movenpick, l’albergo più moderno e lussuoso di Ramallah, e probabilmente di tutta la Palestina. Ho accompagnato la mia amica Virginia ad assistere ad una conferenza, e mi sono piazzato nel grande lounge bar all’ingresso, approfittando dell’attesa per scrivere qualche nuovo pezzo.

In questa mattinata uggiosa e invernale, l’immenso locale è deserto, e ho l’imbarazzo della scelta tra poltroncine e divanetti uno più soffici dell’altro. Una musica leggera e soffusa, proveniente da tutte le direzioni e da nessuna, pervade l’aria. Nel menù trovo una vasta scelta di vini, cocktail e liquori, compresi un Chianti, un vermentino, un verduzzo, il Martini, il Campari e il limoncello; è una selezione degna di un grande albergo internazionale, ma a quest’ora preferisco un semplice tè verde al gelsomino.

La serenità e il comfort sono assoluti. Per la maggior parte della mattina, sono l’unico cliente. Ogni tanto compare qualcun’altro: un uomo d’affari trentenne, con abiti sportivi e cravatta, i capelli ingellati e tirati all’indietro, immerso in una conversazione di lavoro al telefono; o due uomini in completo sulla cinquantina, forse dei politici o dei diplomatici, assorti in una chiacchierata lenta e confidenziale. Restano in piedi qualche minuto, ordinano una bevanda calda, si siedono a un tavolo per berla, si alzano e se ne vanno. Sono tutti palestinesi, la classe alta, l’elite del paese.

Ramallah è sempre di più il centro degli affari e del potere della Cisgiordania. Ci sono la maggior parte dei politici e degli uffici ministeriali, oltre a molte imprese moderne e dinamiche. A partire dagli accordi di Oslo nella metà degli anni ’90, con una breve pausa durante la Seconda Intifada, le grandi famiglie palestinesi hanno investito sempre di più in questa città. Molte di loro hanno sfruttato i capitali guadagnati all’estero, dopo lunghi anni di emigrazione, per lanciare una nuova impresa o per costruire un palazzone di appartamenti o uffici. E’ un momento di boom edilizio e la città continua ad espandersi rapidamente sulle colline attorno: pochi decenni fa Ramallah era solo un grosso paese, ma negli ultimi vent’anni ha quasi raggiunto le dimensioni delle due città storiche di Nablus e Hebron.

Il Movenpick per me è un piccolo simbolo di questo sviluppo improvviso e delle pretese e ambizioni di Ramallah: una capitale temporanea che rischia (e forse spera) di diventare la capitale permanente della Palestina. E’ un edificio peculiare che combina e comunica modernità, edonismo, ricchezza, internazionalismo. Ho l’impressione di essere in qualsiasi altra parte del mondo; e credo sia un effetto voluto. Tutto questo con la benedizione del presidente Mahmoud Abbas, che secondo la targa all’ingresso ha assistito all’inaugurazone nel 2010.


La cattedrale armena: un angolo di spiritualità e di misticismo

E’ la mia chiesa preferita in Palestina. Niente gruppi di turisti, niente orde di pellegrini: la cattedrale di San Giacomo è nascosta e protetta all’interno di un complesso di edifici nel cuore del quartiere armeno, e apre soltanto per mezz’ora al giorno per la celebrazione della messa. Un rituale enigmatico, per pochi intimi fedeli e visitatori, raccolti in rispettoso silenzio.  Al confronto gli altri luoghi sacri di Gerusalemme, compreso il Santo Sepolcro, sono tanto caotici e affollati quanto un bazaar.

C’e’ un delizioso contrasto tra l’architettura semplice e nitida di questa piccola chiesa a pianta quadrata, e le sue decorazioni sfarzose appese al soffitto e alle pareti. Abbondano gli ori e gli argenti, i candelabri in ferro lavorato, gli affreschi, i legni intarsiati e le icone, secondo il modello del cristianesimo ortodosso; mentre i rivestimenti di piastrelle azzurre e i grandi tappeti ricordano vagamente lo stile delle moschee persiane.

Tutto è penombra, raccoglimento, spiritualità. Due cori di giovani uomini vestiti di nero intonano i salmi e le preghiere, uno dopo l’altro, a intervalli differenti, in una litania ripetitiva. I turiferai in tunica bianca percorrono a grandi passi la navata e spandono il fumo bianco e penetrante dell’incenso con movimenti del braccio rapidi e decisi. Mi avvolge iI suo odore pungente e acuisce le mie sensazioni. Il tintinnare delle catenelle dei turiboli con il suo ritmo regolare scandisce il tempo della preghiera. Infine i preti nei loro abiti neri, con il capo coperto da un enorme cappuccio, vanno e vengono da una sala interna e intervengono nel rituale al momento opportuno, recitando un salmo cantato in risposta ai due cori, o leggendo alcuni versetti della Bibbia.

E’ un rituale preciso e misurato, regolare e monotono, scenico e variopinto, in cui il movimento spaziale dei corpi e l’intervento alternato dei vari chierici sembra avere tanta importanza quanto il contenuto dei canti e delle preghiere. Il suo significato è assolutamente incomprensibile per un osservatore occidentale; ma la carica di misticismo e di mistero sacro è molto intensa.

Ecco una chiesa che non si è arresa al turisto di massa e che è rimasta ciò che è sempre stata: un luogo protetto di preghiera e di adorazione. Finita la messa, restano pochi minuti al fedele per una confessione in una cappella laterale, e al visitatore per scattare un paio di fotografie. Poi i religiosi invitano tutti verso l’uscita, sigillano l’entrata, e l’antica cattedrale può riposare serena e indisturbata fino all’indomani.


La giudaizzazione di Gerusalemme

La parola giudaizzazione, di non facile pronuncia, avrà già probabilmente scoraggiato più di qualcuno dalla lettura di questo articolo. Cosa vuol dire esattamente? Riprendo la definizione di un mio pezzo di alcuni mesi fa: la giudeizzazione è Il progressivo cambiamento dell’equilibrio demografico e delle connotazioni culturali di una regione e/o di una città (in questo caso Gerusalemme Est) a favore della comunità israeliano/ebraica e a scapito di quella arabo/palestinese; processo messo in moto e favorito da diverse politiche del governo israeliano.

Detta in soldoni, è una strategia israeliana messa in atto per trasformare la metà orientale di Gerusalemme in una città predominantemente ebraica, non solo in termini demografici, ma anche in termini  “storici” e “culturali”.

Questa politica si esprime sotto forme diverse. Innanzitutto, nei quartieri arabi di Gerusalemme Est la costruzione di nuove case è rigidamente controllata e limitata, mentre la loro espansione su terreni vuoti è praticamente proibita. Al contrario, i quartieri israeliani sono liberi di crescere liberamente e “naturalmente”, e ogni tanto un’area non edificata viene riservata per la creazione di un nuovo quartiere. Grazie a queste politiche, applicate nell’arco di 44 anni, ci sono attualmente circa 200,000 coloni israeliani a Gerusalemme Est, in contravvenzione con il diritto internazionale.

Un altro esempio di intervento più sottile: il quartiere arabo di Silwan sorge sopra le rovine del primo insediamento ebraico di Gerusalemme, risalente a circa 3000 anni fa, e soprannominato la Citta’ di Davide dal nome del re biblico. Potrebbe dunque apparire naturale che diverse case siano state espropriate e demolite e che una certa area sia stata riservata per gli scavi archeologici. Al tempo stesso però, a fianco di questo sito storico, sono sorte anche due file di villini privati e una passeggiata pedonale ad uso esclusivo dei coloni israeliani; e il piano a lungo termine è di favorire progressivamente l’insediamento ebraico e di cancellare la presenza araba da tutta la metà meridionale del quartiere. La presenza del sito archeologico verrà sfruttata per mettere i risalto i legami ancestrali del popolo israeliano con questa zona e per renderne più accettabile l’indebita appropriazione.

Sono usciti in queste settimane due rapporti interessanti che spiegano la situazione meglio di quanto lo possa fare io. Il primo è di Al-Maqdese for Social Development, un’organizzazione di difesa dei diritti dei Palestinesi di Gerusalemme; il loro rapporto riporta nei dettagli tutte le demolizioni di case avvenute a Gerusalemme Est nel 2011 (46 casi in totale). I dati più interessanti sono però le statistiche compilate dal 2000 al 2011: secondo questa associazione in 12 anni ci sono stati 1059 casi di demolizione per un totale di 4865 Palestiniasi sfrattati e costretti a trasferirsi o a emigrare.

Il secondo documento è stato invece preparato dai consolati europei a Gerusalemme e a Ramallah; era indirizzato alle istituzioni dell’Unione Europea e pensato per un uso confidenziale e interno, ma è stato passato di soppiatto alla stampa. Questo rapporto spiega come le politiche israeliane stiano frammentando la parte araba della città in una catena spezzata di quartieri isolati l’uno dall’altro: questa situazione rende sempre più difficile e improbabile la futura adozione di Gerusalemme Est come capitale della Palestina, e in questo modo vanifica ogni speranza di una pace duratura tra i due popoli. Inoltre l’impatto negativo di queste politiche sull’educazione e sulla salute della popolazione è notevole.

E’ un documento davvero interessante, soprattutto per chi non abita in Palestina e non conosce bene la situazione di Gerusalemme. Segnalo la versione integrale del rapporto (in inglese) e un articolo che ne riassume il contenuto (in italiano).

Grazie!

Un piccolo grande “grazie!” per tutte le persone qui in Palestina che mi hanno accompagnato e appoggiato durante un anno intero, e che continuano a farlo.

Grazie a tutti i miei colleghi di lavoro, palestinesi e stranieri, per la loro professionalità, per il loro rispetto, per la loro amicizia, e per tutti i bei momenti trascorsi assieme. Vorrei tanto ringraziarne alcuni in particolare, ma preferisco non fare nomi per ragioni di confidenzialità.

Grazie Anna per essermi stata molto vicina in più occasioni, per avermi accolto e ospitato più volte nella tua casa e nel tuo gruppo di amici a Beit Sahour, e per aver stemperato il mio razionalismo e il mio distacco con la tua visione più empatica e emotiva della situazione in Palestina.

Grazie Paolo per avermi aiutato ad ambientarmi nei miei primi mesi a Gaza, per aver condiviso con me la tua esperienza del contesto palestinese, per avermi fatto da confidente per alcune questioni delicate e spinose, e per aver ascoltato e sopportato le mie lunghe “lezioni”!

Grazie Skye per il tuo entusiasmo, la tua energia, il tuo spirito critico, la tua ironia e il tuo affetto. Grazie per i tanti piccoli viaggetti, per le gitarelle in compagnia, per le discussioni sulla politica Mediorientale, e per le serate a Gerusalemme, Ramallah e a Tel Aviv.

Grazie Vale per la tua spontaneità e il tuo affetto. Grazie per aver rilanciato e riinventato insieme un’antica amicizia in via di disparizione. Grazie per le tante piacevoli serate a Gerusalemme, per le conversazioni personali, e per le mille spiegazioni storiche e culturali.

Grazie Ted per i bei momenti trascorsi insieme a Gaza, per la tua semplicità e la tua grande simpatia, per il tuo approccio alla vita ricco di moderazione, buon senso, rispetto.

Grazie Julie per i momenti trascorsi a parlare delle nostre vite e delle nostre emozioni. Grazie per la tua empatia e il tuo affetto, e per aver condiviso con me le tue esperienze personali e professionali.

Grazie a tutti i cari amici palestinesi di Gaza, per avermi accolto nel loro gruppo come uno di loro, per avermi fatto sentire a casa.

Grazie infine a tutti gli amici e i conoscenti palestinesi di Nablus, con cui i miei rapporti sono appena iniziati e poco a poco si rafforzano; grazie per l’accoglienza, la simpatia, la disponibilità.

Un “grazie” sincero a tutti: è stato davvero bello condividere quest’anno con voi. Senza la vostra presenza, il vostro appoggio e il vostro affetto la mia vita sarebbe stata molto più solitaria, grigia e vuota. Probabilmente non ce l’avrei fatta a restare per un anno intero, e avrei abbandonato prima.

Grazie di cuore e tanti auguri per l’anno appena iniziato.

L’anniversario della rivoluzione

Mi ricordo benissimo di quella serata, come se fosse ieri. Ero appena rientrato da una cenetta in compagnia nella mia casa di Sana’a, in Yemen. Volevo solo dare un’ultima stanca occhiata alle mail e alle notizie su Internet, giusto prima di andare a dormire.

Di colpo mi cadde l’occhio su un titolo sorprendente: “Il presidente Zine al-Abidine Ben Ali ha lasciato il paese”. Una notizia giusto di mezz’ora prima. Divorai in un battibaleno l’articoletto striminzito, ricopiato pari pari da una notizia d’agenzia stampa, ma i dettagli erano troppo pochi, non mi bastava. Lasciai perdere il computer e corsi al volo verso il salotto; con pochi gesti frenetici accesi la televisione e mi sdraiai sui cuscini stesi al suolo a guardare i notiziari speciali.

Rimasi lì incollato allo schermo per almeno due ore, saltando da un canale all’altro, dalle reti mediorientali a quelle europee, e lasciandomi appassionare dalle ipotesi e dalle congetture dei vari commentatori politici. Il presidente tunisino è scappato per sempre, o conta di rientrare in patria dopo qualche giorno? La Francia gli concederà o no l’asilo politico? E chi prenderà il potere al suo posto?

In quelle prime ore dopo la sua fuga, le voci abbondavano, il futuro era incerto, e nessuno ancora sapeva che quel giorno avrebbe segnato l’inizio di una nuova era nella storia dei paesi arabi; ma l’enormità di quanto era appena successo era evidente. Per la prima volta in decenni, un paese arabo si era liberato del suo dittatore non con un assassinio o un colpo di stato, ma attraverso una rivolta popolare e delle manifestazioni di piazza essenzialmente non violente.

La sorpresa era assoluta. A dire il vero, le televisioni arabe, e Al Jazeera in primis, avevano mostrato le immagini delle proteste in Tunisia per diverse settimane, mentre la rivolta poco a poco cresceva, ma onestamente nessuno ci aveva creduto davvero: di proteste simili se ne erano già viste in altri paesi della regione, e senza grossi risultati. Il giorno prima avevo letto le notizie della prima manifestazione a Tunisi e avevo pensato:- Gli spareranno contro, per uno, due o tre giorni, e alla fine la folla si disperderà, la rivolta si smorzerà, e tutto tornerà come prima.

Ancora una volta, un enorme credito va al popolo tunisino per essere riuscito in questa impresa e per aver fatto da apripista agli altri paesi arabi. Ad un anno esatto dalla fuga di Ben Ali, dopo le sue prime elezioni libere e democratiche, la Tunisia continua a marciare nella direzione giusta, ed è al momento l’unica rivoluzione araba di cui si possa essere ragionevolmente ottimisti per il futuro. E Il 14 gennaio è una data che rimarrà scritta a lungo nei libri di storia di tutto il mondo arabo.

Una visita da Gaza

Khamis, un nostro collega dell’ufficio di Gaza, è venuto a farci visita qui a Nablus. Mi ha fatto davvero piacere: era da mesi che non lo vedevo! Inoltre, è stato un evento eccezionale: erano passati quasi due anni dall’ultima visita di un collega da Gaza.

La Cisgiordania e Gaza sono quasi completamente isolate l’una dall’altra, e le opportunità per i palestinesi di viaggiare da una regione all’altra (o viceversa) sono incredibilmente ristrette. C’è bisogno infatti di un permesso speciale da parte delle autorità israeliane, che viene assegnato soltanto ad alcune categorie di persone molto particolari: uomini d’affari, operatori umanitari, o malati gravi in cerca di cure.

Appartenere alla categoria giusta però non basta: durante il 2011 i miei colleghi di Gaza hanno fatto ripetute richieste per un permesso, ma sono state quasi tutte rifiutate o non hanno ricevuto risposta, e senza spiegazione alcuna. Ottenere il permesso per viaggiare dalla Cisgiordania a Gaza è ancora più difficile, e infatti la maggior parte dei miei amici e colleghi qui a Nablus non sono mai stati a Gaza in vita loro, oppure ci sono andati di sfuggita 10 o 15 anni fa, prima della seconda Intifada e della costruzione del muro.

Khamis è venuto a Nablus in giornata, con altri colleghi di Gerusalemme, per alcune riunioni di lavoro. In teoria doveva rientrare a Gerusalemme nel pomeriggio, ma l’abbiamo facilmente convinto a fermarsi a dormire da noi una notte, per ripartire la mattina dopo. Non era mai stato a Nablus prima in vita sua! Non poteva proprio lasciarsi sfuggire quest’occasione.

Verso le cinque, dopo l’orario di lavoro, siamo usciti in un piccolo gruppetto di colleghi e gli abbiamo mostrato la città vecchia di Nablus con il suo mercato tradizionale. Poi Samira, un’altra nostra collega, ci ha invitato a casa sua per una “cenetta” che si è trasformata in un vero e proprio banchetto di specialità palestinesi. Siamo rimasti a lungo nel suo salottino a chiacchierare e scherzare con lei e suo marito. Infine siamo andati a fare un giro per il quartiere di Rafidia, in un viale moderno con negozi alla moda, caffè e ristoranti, e abbiamo portato Khames a fumare il narghilè in un locale con terrazza al settimo piano di un palazzone. Le viste notturne su Nablus erano magnifiche…

La serata è stata davvero stupenda: Khamis era felice dell’inaspettata opportunità di scoprire Nablus, e noi eravamo contenti di averlo qui con noi, anche solo per un momento fugace, anche solo per una serata. L’aspetto paradossale della faccenda era che io, straniero, in Palestina solo da un anno e a Nablus solo da pochi mesi, mi sono ritrovato a portarlo in giro per il centro della città, a spiegargli alcuni aspetti storici e a indicargli i negozi e i ristoranti più famosi; insomma a fargli da guida, proprio a lui, palestinese, con più di trent’anni di vita nel paese.

La Cisgiordania e la striscia di Gaza, unite, sono più piccole dell’Umbria; ma spostarsi da una parte all’altra è talmente difficile per i palestinesi, che uno straniero in pochi mesi può riuscire a viaggiare e visitare di più di un abitante del posto. E’ una delle tante incomprensibili assurdità della situazione attuale in Palestina.

Riassunto di un anno in Palestina

E’ successo assolutamente per caso. La mia amica Elyda, vecchia conoscenza di anni fa in Congo, è venuta a farmi una visita-lampo, quasi di sorpresa, per un solo fine settimana. E così per tre giorni abbiamo girato in lungo e in largo: ho cercato di farle visitare le città più importanti e i luoghi per me più significativi della Palestina, e le ho presentato i miei colleghi e i miei migliori amici.

E’ stata una vera girandola di scoperte e di emozioni. Il tempo era magnifico: sole splendente, cielo azzurro e terso, aria fresca e frizzante. Le varie tappe del nostro viaggio si sono susseguite una dopo l’altra, senza nessun intoppo, con fluidità e naturalezza. Betlemme e le celebrazioni del Natale ortodosso, il centro storico di Hebron con la sua orrenda colonia, e poi il quartiere ultra-ortodosso di Ma’e Sharim a Gerusalemme. Una mattina soleggiata nella città vecchia di Nablus, un pomeriggio a passeggio nel centro di Ramallah, una breve pausa in un caffè palestinese di stile americano, una visita rapida al mausoleo di Arafat, e infine la cena in un quartiere chic di Gerusalemme Ovest.

Siamo saltati da una parte all’altra senza ordine né rigore, attraversando più volte le frontiere visibili e invisibili di questa terra così complessa e così divisa, e passando ogni volta nel giro di pochi minuti da una città palestinese a un quartiere israeliano, da una cerimonia religiosa a un locale affollato, da una bettola popolare a un ricercato ristorante yemenita o armeno.

Per Elyda forse questi cambiamenti sono stati troppo bruschi e troppo improvvisi. Per lei tutto era completamente nuovo e non conosceva bene il contesto sociale e politico. Cambiare lato del muro più volte nella stessa giornata non è un’esperienza facile da digerire per chi non ci è abituato.

Persino per me, nonostante mi sia completamente assuefatto a questo genere di situazioni, e nonostante conoscessi già quasi tutti i posti in cui siamo stati, questi tre giorni sono stati intensissimi, e pregni di profondi significati. Ho rivisto tanti luoghi in cui ero già venuto nei mesi scorsi, ma con occhi diversi, e con una consapevolezza nuova; e mi sono stupito nello scoprire tanti piccoli angoli di questa terra per me ancora sconosciuti, a cui ero già molte volte passato di lato, a pochi passi, ma senza mai rendermene conto.

E’ stato come un grande riassunto dell’anno appena trascorso in Palestina, in cui i ricordi dei viaggi passati si sono mescolati con le scoperte del presente; in cui strade e piazze, monumenti e paesaggi familiari mi sono riapparsi di fronte ancora una volta, ma con colori più vividi e con un gusto più carico e deciso; e in cui i miei cari amici mi hanno dimostrato ancora una volta la loro generosità e il loro affetto. E il piacere di sapersi ormai muovere con disinvoltura e di sentirsi dappertutto a proprio agio e bene accolto, si è mescolato con dolcezza alla sensazione di avere ancora un sacco di cose nuove da conoscere e da scoprire.

Il mausoleo di Arafat

Il mausoleo di Arafat è una piccola tappa obbligata in una visita a Ramallah, la sede temporanea dell’Autorità Palestinese (in sostituzione di Gerusalemme Est, considerata la capitale ma attualmente occupata dagli israeliani). Ramallah è una città moderna e di recente costruzione, ed è altrimenti sprovvista di monumenti o siti storici degni di nota.

Yasser Arafat fu per decenni il principale leader della resistenza palestinese; divenne il primo presidente dell’Autorità Palestinese nel 1994, dopo la firma degli accordi di Oslo, e lo rimase fino alla sua morte nel 2004. E chi non se lo ricorda? E’ stato un politico carismatico e un’icona mediatica al pari di altri leader mondiali ben più potenti di lui.

Nel cuore di molti palestinesi Arafat conserva un posto speciale: è considerato come l’unico vero leader palestinese, come colui che ha guidato il suo popolo a riprendere in mano il proprio destino e a lottare per la liberazione dopo il fallimento dell’Egitto di Nasser e degli altri stati arabi nella guerra del 1967; come un eroe che ha combattuto fino in fondo e che ha fatto tutto il possibile per la sua gente.

Altri invece lo criticano aspramente per la corruzione del suo governo e per i suoi atteggiamenti dittatoriali; puntano giustamente il dito sugli anni persi a combattere in Giordania (dal 1967 al 1970) e in Libano (dal 1975 al 1982), spesso in lotte fratricide contro eserciti e milizie arabe, invece di incoraggiare la nascita di un movimento di resistenza all’interno della Palestina; e indicano infine come il suo più grande errore proprio la firma degli accordi di Oslo, in cui in cambio della creazione di un governo autonomo e dell’ottenimento del potere, Arafat avrebbe avallato implicitamente l’espropriazione e la colonizzazione da parte degli israeliani di due terzi dei territori palestinesi.

Io non ho ancora un’opinione chiara in merito. Ci sono troppe luci e troppe ombre attorno a questo particolare personaggio; e troppi dettagli e passaggi storici che non conosco. Ho comunque l’impressione che il ventennio tra la Guerra dei Sei Giorni (1967) e la prima Intifada (1987) sia andato completamente perduto per la causa palestinese, e sicuramente Arafat ha le sue responsabiltà in questo. Mi piacerebbe comunque leggere una sua buona biografia per capirne di più.

Ad ogni modo, la visita al suo mausoleo nel centro di Ramallah, costruito proprio nel recinto di sicurezza in cui Arafat rimase rinchiuso e assediato dall’esercito israeliano nei suoi ultimi anni di vita, è una breve occasione per ricordare le guerre e le tragedie vissute da tutti i popoli mediorientali durante gli ultimi 40 anni, tenendo presente che i loro travagli sono purtroppo ben lungi dall’essere terminati.

Infine un’ultima nota: anche il mausoleo di Arafat, come tutti gli edifici governativi di Ramallah, è in teoria soltanto temporaneo. Le sue ultime volontà furono di essere sepolto nella Spianata delle Moschee, a Gerusalemme. E un giorno lì verrà spostato, quando (e se) i palestinesi riusciranno a stabilire la propria capitale a Gerusalemme Est.

Il secondo Natale

E’ arrivato Natale! Ma come, di nuovo? Eh sì, la maggior parte dei cristiani ortodossi segue tuttora l’antico calendario giuliano, e il loro Natale si celebra il 7 di gennaio del nostro calendario. E io nel giorno della vigilia (da noi l’Epifania), puntuale all’appuntamento, sono andato a Betlemme una seconda volta per osservare anche queste celebrazioni.

Il cristianesimo ortodosso, a differenza del cattolicesimo, è diviso in varie Chiese e confessioni, ciascuna con la sua storia e le sue tradizioni particolari. A Gerusalemme ci sono quattro principali patriarcati ortodossi: il più grande è quello della Chiesa greca ortodossa, a cui la maggior parte dei cristiani palestinesi appartiene; seguono poi gli altri patriarcati: il copto, l’etiopico, e il siriaco. Per questo motivo, mentre nel Natale cattolico c’era stata un’unica grande processione al culmine della quale era apparso il patriarca latino, per il Natale ortodosso hanno organizzato quattro processioni separate per ognuno dei patriarchi, ad orari diversi durante la giornata.

Quando sono arrivato in tarda mattinata, c’erano di nuovo molte persone in piazza a Betlemme, anche se in quantità minore rispetto al Natale cattolico. Pure i gruppi di scout nelle processioni erano meno numerosi, e sono finiti in fretta. Al contrario, le preghiere e i rituali all’interno della Basilica della Natività sono durati a lungo e mi hanno particolarmente affascinato.

Nella chiesa in penombra, rischiarata dagli elaborati candelabri sospesi, un fortissimo odore d’incenso permeava l’aria. Gruppetti di monaci e prelati in tonache scure o uniformi dorate erano immersi in contemplazione di fronte alle antiche icone e agli altari, recitavano versetti sacri da una Bibbia voluminosa, intonavano un inno di preghiera, o incedevano con passo solenne in una marcia rituale attraverso la basilica, percuotendo il suolo con un argenteo bastone. Nel mezzo di ciascun gruppo si intravedeva un uomo anziano, addobbato con i più sacri paramenti, dalla barba bianca e lunghissima, e con lo sguardo stanco e quasi assente, ma con un’aura di autorità e di prestigio inconfondibile: un patriarca, un pastore del gregge di fedeli.

Abiti, rituali, lingue diverse: nella Basilica della Natività ad ogni Chiesa la sua cappella, e in ogni cappella una maniera unica e speciale di celebrare il Natale. Attorno ai sacerdoti c’era una folla di fedeli di mille colori e nazionalità, immersi nella preghiera o assorti in contemplazione, e dietro di loro un buon numero di turisti e di curiosi intenti a fotografare ogni singolo dettaglio di questa cacofonica celebrazione religiosa.

L’indomani, nel giorno del Natale vero e proprio, abbiamo ripetuto un’esperienza simile a Gerusalemme, nella Chiesa del Santo Sepolcro. Ci siamo immersi con piacere nel mezzo di una folla turbinante di pellegrini, ancora più densa e variegata di quella di Betlemme, e ci siamo perduti tra le varie cappelle, gli absidi e gli altari, ognuno appartenente a una differente confessione religiosa.

Questa chiesa, considerata la più santa di tutta la Cristianità, è un vero labirinto impregnato di simboli religiosi e di misticismo. Nel mezzo della baraonda, due processioni affatto diverse si rincorrevano l’un l’altra: la prima condotta dai frati francescani nei loro umili sai di tela marrone, e recitata in latino; la seconda guidata da un prete armeno e da un nutrito coro di diaconi e chierichetti, e cantata in armeno. Lingue incomprensibili alla maggior parte dei fedeli, ma cariche di solennità e di richiamo religioso.

E mentre la testa di una processione lambiva la coda dell’altra, i pellegrini seguivano l’una o l’altra o entrambe, o attendevano pazientemente in fila per l’ingresso al Santo Sepolcro, o accendevano dei ceri votivi in un’alcova, o si inginocchiavano di fronte ad un altare, o recitavano una preghiera nella loro lingua madre. Sotto i riflessi dorati e argentei delle decorazioni e dei candelabri, la scena appariva come una grande opera teatrale in più atti, in cui tutti gli atti venissero recitati in una volta sola, con tutti i personaggi, tutti i costumi e tutti gli scenari sul palco nello stesso momento, in sovrapposizione, mescolati in una sorta di confusione ordinata e creativa.

Preghiere al muro del Pianto

Sono già venuto diverse volte a visitare il Muro del Pianto e a osservare i fedeli ebraici assorti nelle loro preghiere. Oggi però, forse perché è una giornata fresca di sole, o forse perché in questi giorni sono particolarmente recettivo, questa scena familiare mi colpisce più del solito e arriva quasi ad emozionarmi.

E’ sabato mattina, siamo nel pieno dello Shabbat ebraico, e per questo mi aspettavo di vedere soprattutto degli ebrei ortodossi, con il loro classico abito nero e il loro cappello a tesa larga. Effettivamente il venerdì sera, giusto all’inizio dello Shabbat, la città vecchia di Gerusalemme si riempie di ebrei ortodossi, in arrivo da tutte le direzioni, a passo spedito, con lo sguardo fisso di fronte a loro, tutti concentrati per giungere in tempo al Muro del Pianto prima del tramonto. Più o meno dopo un’ora, inizia il riflusso, e le masse di fedeli ebraici si allontanano dalla piazza del Muro ed escono dalla città vecchia per tornare alle loro case.

Oggi invece per mia sorpresa al Muro ci sono persone di tutti i tipi: molti di loro si saranno messi la kippah* sul capo solo per il momento della preghiera, e se la toglieranno cinque minuti dopo per tornare alla loro vita di tutti i giorni. Qualcuno porta con sè un bigliettino con una breve preghiera e lo infila piegato nelle fessure tra le grandi pietre. Qualcun’altro legge o recita a bassa voce dei passi della Torah. Altri invece sono immersi in una preghiera interiore e piegano regolarmente il capo, in un movimento ritmico, regolare, di fronte al Muro. Ognuno prega a modo suo, in maniera spontanea, individuale, e molto personalizzata.

Tradizionalmente gli ebrei sono venuti qui per secoli a lamentarsi e piangere per la distruzione del Secondo Tempio, raso al suolo dai romani durante la repressione delle rivolte ebraiche. Il Muro sostiene dal lato occidentale la Spianata delle Moschee, dove duemila anni fa sorgeva il tempio e dove da più di mille anni si trovano invece la Cupola della Roccia e la Moschea di al-Aqsa. Quest’area è considerata il più importante luogo santo dell’Ebraismo, e il terzo luogo più santo dell’Islam.

Questa mattina mentre osservo i fedeli in preghiera cerco per una volta di mettermi nei loro panni. L’esistenza degli ebrei nei secoli scorsi è stata forgiata dalla discriminazione e dalla sofferenza. Persino il loro luogo più sacro, il loro oggetto di massima venerazione, si è fondato in realtà su un’assenza, su una negazione: su un edificio distrutto due millenni fa da un impero più forte e più brutale del loro antico regno, e mai più ricostruito. Per un popolo vissuto nella diaspora, per un popolo di peregrinanti e di transmigratori, per un popolo senza vera casa e senza rifugio sicuro, quale simbolo più tragicamente appropriato di un tempio inesistente, di un santuario perduto?

Questa mattina dimentico per un attimo l’occupazione dei territori palestinesi, dimentico l’arroganza dell’esercito e del governo israeliano, e mi soffermo a pensare agli ebrei, alla loro storia gloriosa e tragica, e alla loro religione molto simile al cristianesimo ma per me ancora misteriosa e sconosciuta. Un popolo che ha sofferto per secoli e che meritava e merita di avere uno suo spazio, una sua terra, un suo rifugio. Un popolo che ha diritto alla sua sovranità e alla sua libertà, ma senza negarla agli altri.

*Tipico copricapo rotondo utilizzato dagli ebrei osservanti maschi, in particolare nei luoghi di culto.

Notturno di Hebron

Scende la sera, calano le luci, si svuota il palcoscenico, e mi ritrovo a vagabondare lungo i corridoi deserti di un misterioso teatro, rifugio di ombre cinesi, dimora di sussurri e di silenzi. Un vicolo dopo l’altro mi apro strada tra le sue quinte e incrocio di passaggio i suoi fantasmi inquieti. Hebron citta’ sinistra, citta’ notturna, il venerdi’ sera chiude i battenti, e lo spettacolo e’ rimandato al giorno dopo.


Hebron: dall’altro lato

E’ già la terza volta che visito la città vecchia di Hebron. Le altre due volte però era di sabato: le botteghe del mercato arabo erano aperte, la strada principale era abbastanza trafficata, e si incrociavano facilmente altri gruppetti di stranieri in visita.

Oggi invece è venerdi: tutti i negozi sono chiusi e le vie sono quasi deserte. Un’atmosfera vagamente spettrale pervade la città. Arrivati in fondo al mercato, e superato il posto di blocco israeliano, scopriamo che l’ingresso alla grande moschea è vietato ai turisti perché è il giorno di preghiera per i musulmani. Al contrario, ci informano due ragazzini, oggi possiamo visitare il lato ebraico…

Ho già descritto qualche mese fa l’orribile colonia israeliana installata nel pieno centro di Hebron. Non ho ancora parlato però delle Grotte dei Patriarchi e della Moschea di Abramo. Qui sono sepolti, nel centro di Hebron, i tre grandi patriarchi delle religioni monoteiste: Abramo, Isacco e Giacobbe. E’ il secondo sito più santo per l’Ebraismo, ed un luogo di culto importante per i musulmani e i cristiani. Sulle tombe dei patriarchi, in origine costruite in alcune grotte sotterranee, fu eretto anticamente un santuario ebraico, che divenne poi una chiesa (all’epoca dei bizantini) e infine una moschea (dopo la conquista araba).

Dopo l’occupazione israeliana di Hebron nel 1967 e con il progressivo espandersi della colonia, ci sono stati diversi scontri e attacchi tra ebrei e musulmani in relazione al diritto di entrare e di pregare nella moschea. Il caso più grave fu il massacro compiuto nel 1994 da Baruch Goldstein, un colono israelo-americano, che penetrò armato nella moschea e aprì il fuoco contro i fedeli musulmani lì riuniti in preghiera, uccidendone 29 e ferendone oltre un centinaio. Da allora le autorità israeliane hanno diviso la moschea in due sezioni differenti: una parte per i fedeli musulmani, l’altra per i fedeli ebraici. I due lati sono separati da una parete permanente di metallo, i due ingressi sono completamente separati, e un plotone di soldati israeliani sorveglia l’edificio. E’ un altro esempio delle follie alle quali l’uomo viene spinto dal fanatismo religioso.

Visitiamo il lato ebraico della moschea: le sale di preghiera sono quasi vuote, c’è un silenzio tombale. Ai muri sono appesi dei drappeggi con dei brani delle Scritture o delle preghiere in ebraico; ma poco sopra si leggono ancora i versetti coranici decorati a stucco lungo la parete. In una sala laterale, un signore vestito da ebreo ortodosso recita le sue preghiere in solitudine, chinando il capo, assorto in un incomprensibile mormorio.

Uno scaffale basso di legno ospita una collezione di volumi religiosi, tra cui varie copie della Torah e del Talmud, rilegati con una copertina marrone o verde scura. Mi ricorda tantissimo gli analoghi scaffali dall’altro lato dell’edificio, con la stessa forma, e un genere di volumi molto simili, ma dal titolo diverso: il Corano. Si rafforza in me la convinzione che le tre grandi religioni monoteistiche siano in fondo tre versioni differenti di uno stesso credo.

Usciamo nel giardino di fronte al santuario e incrociamo all’ingresso un paio di pullman carichi di visitatori ebrei: vengono da Tel Aviv o da qualche altra città israeliana, giusto in tempo per l’inizio dello Shabbat. Dietro di loro vediamo un folto numero di soldati e di jeep militari, posizionati all’entrata a loro protezione. Ci affrettiamo ad allontanarci e imbocchiamo Shuhada Street, la via principale del centro che attraversa tutta la colonia.

Ancora una volta, ancora di più, il paesaggio urbano è vuoto, abbandonato, desolante. I vecchi negozi dei commercianti arabi sono tutti chiusi e sprangati da anni, e le erbacce crescono al loro ingresso. Tutti i vicoli in direzione del mercato sono bloccati da barriere di filo spinato, paratie metalliche, e muri di cemento armato. Lungo la strada incontriamo soltanto soldati israeliani, e una pattuglia di due osservatori internazionali della TIPH*. Ancora più delle visite passate, mi sembra di essere in una zona di guerra. Anzi, direi che lo sono. Qui è in atto una guerra fredda, lenta e inarrestabile, per il controllo e il possesso di un’antica e martoriata città.


* La Presenza Internazionale Temporanea a Hebron (TIPH secondo l’acronimo inglese) e’ una missione internazionale di osservazione incaricata di monitorare la situazione di sicurezza e il rispetto delle leggi internazionali a Hebron.

Piangi Siria, piangi

Due settimane fa, come un fulmine a ciel sereno, la notizia: due attentati suicidi alla periferia di Damasco, in pieno giorno, contro due edifici delle forze di sicurezza. Almeno 40 morti, e un centinaio di feriti. Resto sconvolto, attonito. E’ il primo attentato suicida in Siria dall’inizio della rivoluzione, ed è un avvenimento estremamente inquietante, che ricorda la tragica storia di altri paesi vicini, come il Libano e l’Irak.

Per di più conosco bene il luogo dell’attacco, il quartiere di Kafr Susa: due anni fa ci andavo ogni giorno in autobus a prendere lezioni private di arabo…

E questa mattina, per la seconda volta, un’esplosione nel centro di Damasco. Secondo il governo siriano, si tratta di un altro attentato suicida. Decine di morti e di feriti. Questa volta nel quartiere storico di Midan, famoso per i suoi negozi di pasticceria araba e i suoi ristoranti di agnello e montone.

Oggi i titoli dei giornali sulla Siria sono assolutamente uguali a quelli letti e riletti sull’Irak. Le esplosioni e gli attentati si sono trasferiti da Baghdad, una città per me solo immaginata e sognata, e una specie di fantasma del nostro subconscio collettivo, a Damasco, una città viva e reale, conosciuta e amata. Mi si stringe il cuore. Ahi povera Damasco, ahi poveri siriani…

Il governo accusa l’opposizione di essere soltanto un’accozzaglia di bande terroristiche e di aver compiuto questi attacchi efferati per creare scompiglio. L’opposizione accusa invece il governo di averli organizzati per spaventare la popolazione e per convincerla a preferire la continuazione della dittatura al caos e all’anarchia, secondo una specie di strategia della tensione.

Da che parte starà la verita’? Nessuno lo sa. E intanto la situazione in Siria non fa che peggiorare. In questo stallo prolungato tra governo e opposizione, in cui nessuno dei due lati riesce ad averla vinta sull’altro, e in cui non c’è né spazio né volontà politica per un compromesso, a pagarla più cara è la gente comune: i civili inermi, i manifestanti disarmati, i dissidenti politici.

Piangi Siria, piangi, perché la fine delle tue pene è ancora lontana.

Buon 2012!

Buon anno a tutti!

Buon anno alla mia famiglia e ai miei amici che regolarmente mi danno per disperso, ma di cui mantengo sempre un ricordo vivo e intriso di affetto, e a cui di tanto in tanto faccio avere mie notizie.

Buon anno ai miei colleghi, a tutti i cooperanti e operatori umanitari, dispersi ai quattro angoli del mondo, immersi in società diverse dalle loro, in situazioni a volte difficili, e a volte pericolose.

Buon anno a tutti gli italiani, risvegliatisi di colpo in un paese impantanato nella crisi, all’improvviso più poveri e insicuri di quanto lo siano stati per decenni.

Buon anno a tutti i popoli arabi, buon anno ai fratelli tunisini ed egiziani, bahreiniti e yemeniti, libici e siriani; una lode al loro coraggio e un augurio per un anno che si preannuncia tanto duro e incerto quanto l’anno passato.

Buon anno a tutti i popoli africani, e tanti auguri a quelli che si stanno rialzando e riprendono a camminare, come gli ivoriani, ma ancora di più a quelli che rimangono vittime del conflitto e dell’anarchia, come i congolesi, i somali, i nigeriani.

Buon anno a tutti gli uomini e le donne del mondo, perchè quest’anno sia migliore dell’anno passato, perchè ci sia meno guerra, dittatura, corruzione e miseria, e perchè ci sia più comprensione, riconciliazione, giustizia e libertà.

Impressioni sfuggenti sulla rivoluzione in Siria

Tra tutte le rivoluzioni dei paesi arabi, sicuramente quella in Siria mi colpisce di più, mi tocca personalmente, perché ci ho vissuto per alcuni mesi un paio d’anni fa, e perché ho amato questo paese. Proprio in Siria, a Damasco, ho iniziato a studiare l’arabo e ho mosso i miei primi passi nella scoperta di questa regione del mondo; e la sua bellezza, la sua cultura, e la gentilezza e l’ospitalità della gente mi hanno lasciato un segno indelebile.

La rivoluzione siriana è anche la più incerta, la più sofferta, e forse la più inaspettata. Nei momenti d’oro delle prime rivoluzioni, lo scorso febbraio, subito la caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, chi avrebbe mai immaginato che il fuoco della rivolta avrebbe incendiato la Siria? Ricordo di averne parlato all’epoca con alcuni amici e colleghi, tutti con esperienze dirette nel paese, e le nostre opinioni erano tutte concordanti: in Siria nessuno parla mai di politica, la polizia segreta è onnipresente, il regime tiene il paese stretto nel pugno, non succederà mai nulla.

Poi a marzo, in sordina, iniziano le prime manifestazioni. Al principio in una cittadina di provincia, al confine con la Giordania: Dera’a. Il governo reagisce con la forza bruta, e invia i carroarmati a ristabilire l’ordine. In pochi giorni tutto sarà finito, dicevamo in tanti. E invece le proteste continuano, si estendono, si allargano ad altre zone periferiche del paese, poi ad alcune citta’ importanti, come Homs, Hama o Latakia, infine perfino alla periferia di Damasco.

Per diversi mesi l’opposizione accende nuovi focolai di rivolta nel paese, e il governo interviene per spegnerli con la forza; la fiaccola della resistenza passa di mano in mano, da una città all’altra, dal sud verso l’est fino al centro e al nord del paese. L’esercito non riesce ad occupare tutte le città siriane allo stesso tempo: le circonda e le travolge una alla volta. E nel frattempo nelle prime città prese di mira, passata la tempesta, ritirate le truppe, la gente riprende a scendere in strada, e a sfidare il potere, per una settimana, per due settimane, per un mese, fino a quando i soldati ritornano e il ciclo di violenza e morte ricomincia ancora una volta.

Ricordo con chiarezza quel giorno all’inizio di luglio in cui i giornali hanno riportato la notizia della prima grande manifestazione di massa a Hama. Mi sono detto: se la gente di Hama scende per le piazze, il regime di al-Asad è destinato a cadere. Hama si ribellò già una volta al potere centrale, nel 1982, e fu per questo circondata, bombardata, e annichilita dalle armate del regime. Se la gente di Hama non ha più paura di manifestare – ho pensato – significa che sono pronti ad andare fino in fondo, vuol dire che si sentono sicuri di vincere. Altrimenti sanno bene cosa li aspetta.

Fino alla fine dell’estate la comunità internazionale rimane indifferente al destino dei siriani. Certo, c’è qualche dichiarazione di condanna qua e là, e alcune sanzioni minori: ma nessun paese si muove per forzare il regime ad arrestare la violenza e a ritirare le truppe. Poi all’improvviso in settembre, dopo la caduta di Gheddafi, la situazione si ribalta a sfavore del governo di al-Asad: chiuso l’intervento militare in Libia, le potenze occidentali e i paesi arabi del Golfo si sentono liberi di concentrare le loro attenzioni sulla Siria. E di colpo aumentano le pressioni sul regime: la Turchia, paese amico e alleato fino all’anno scorso, dichiara apertamente la sua ostilità, mentre la Lega Araba si spinge perfino oltre, sospendendo l’adesione della Siria come suo paese membro e imponendo al governo di accettare (almeno formalmente) un’accordo per la tregua e il dialogo con l’opposizione, e l’apertura del paese a una missione internazionale di osservatori arabi incaricata di monitorarne l’attuazione.

Nel frattempo le proteste non si sono ancora spente, anzi l’opposizione ha preso più coraggio. Un numero crescente di militari diserta e si unisce alla rivolta. La violenza degli attacchi e dei contrattacchi cresce, gli oppositori si armano, l’esercito diventa il bersaglio di imboscate e subisce numerose perdite. E aumentano gli episodi di violenza a sfondo confessionale, e con essi il rischio di una vera e propria guerra civile tra le diverse comunità religiose del paese.

Ed eccoci alla fine di dicembre. Il governo siriano guadagna tempo ed è pronto ad ogni colpo basso e sotterfugio pur di non cedere il potere. L’opposizione continua le proteste e moltiplica gli attacchi armati, ma senza riuscire ad ottenere un vantaggio decisivo. I giochi politici e le manovre opache delle varie potenze internazionali e regionali vanno avanti sullo sfondo, senza risultati chiari. E lo stillicidio di attacchi, di morti, e di sparizioni  continua. E la Siria è sull’orlo del precipizio, di un baratro profondo e cupo, ed anzi, ci è già sprofondata. Chi se lo sarebbe immaginato un anno fa, che il popolo siriano avrebbe avuto il coraggio di ribellarsi? Ma chi saprebbe dire, ora, quando questa crisi finirà, e se la rivoluzione porterà davvero a una maggiore libertà e a una vita migliore per i siriani?

Natale a Betlemme

Natale a Betlemme; e dove se no? Come mi dice un mio amico: ci sono pellegrini che hanno speso centinaia di euro per venire dall’Europa o dall’America; e noi che abitiamo a un paio d’ore di strada, ci lasciamo sfuggire l’occasione?

No, e infatti eccoci qui! Confesso tranquillamente di non essere religioso e di essere venuto in parte per curiosità, e in parte per far festa. Betlemme infatti è la città palestinese con il maggior numero di cristiani, e quindi i costumi sono più rilassati che altrove, nei ristoranti e nei negozi si trovano birra e vino, e ci sono perfino un paio di posti dove andare a ballare…

Oggi però siamo qui per il Natale, non dimentichiamocelo. Arriviamo presto il giorno della Vigilia, verso l’una di pomeriggio, ma le strade sono già tutte intasate! Il centro storico con il suo famoso mercatino d’artigianato è gremito di gente fino all’orlo, quasi non si riesce a passare. A fatica ci apriamo strada per alcuni vicoli secondari e arriviamo nella grande piazza centrale, la piazza della culla o della mangiatoia.

Una folla enorme la occupa completamente. In mezzo vediamo passare lentamente una processione colorata: sono gruppi di giovani scout venuti da tutta la Palestina, ognuno con le loro divise, e vari strumenti musicali: cornamuse, tamburi, trombette. Sono vere e proprie bande: qualcuna intona le tipiche canzoni natalizie, altre suonano delle arie più marziali. Ci passano davanti, un gruppo dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro… per mezz’ora, per un’ora intera! Ma quanti scout ci sono in Palestina? A quanto pare ogni chiesa ha il suo gruppo. E molte moschee pure hanno i loro (anche se ovviamente oggi non ci sono). Strano, non ne avevo mai visti in giro…

Finalmente verso le tre arriva il culmine della processione: il patriarca latino di Gerusalemme fa il suo ingresso nella piazza, seguito dal suo codazzo di monaci e preti. I paparazzi e i cameramen si scatenano: è il momento clou del pomeriggio. In pochi minuti attraversa la folla e svanisce verso l’ingresso della Basilica della Natività. E subito l’adunata si scioglie, e la gente si disperde da tutte le parti, in cerca di un posto caldo dove sedersi a pranzare.

E io pure mi prendo un bel momento di pausa con i miei amici. Andiamo più tardi, verso le quattro, a dare un’occhiata alla Basilica. E’ un’edificio antico, ricostruito e restaurato più volte, con quell’aria vetusta, ombrosa, mistica, tipica delle chiese ortodosse. In una piccola cripta sotto la navata principale sta la grotta della natività, il luogo dove secondo la tradizione nacque Gesù. C’è perfino una grande mangiatoia in pietra. Sono già venuto due volte a visitare la chiesa; oggi però c’è una coda esagerata, e decidiamo di lasciar perdere la cripta.

Gettiamo uno sguardo fugace alla seconda chiesa, adiacente alla prima: una chiesa cattolica di stile neoclassico, costruita in tempi moderni, abbastanza banale e quasi di cattivo gusto. La messa solenne di mezzanotte sarà qui ma purtroppo non potrò vederla: ci vuole un biglietto speciale, bisognava prenotarsi in anticipo. E dura quattro ore! Mentre usciamo, scopriamo in un cortile interno un bel presepio a grandezza naturale.

Scende la sera e la piazza torna a riempirsi: ci sono dei concerti in programma. I miei amici palestinesi mi spiegano che tutti gli anni succede la stessa cosa: di giorno si vedono in giro soprattutto cristiani, venuti per seguire la processione; la sera molti dei cristiani se ne vanno a messa nelle varie chiese della città, e allo stesso tempo arrivano un sacco di musulmani da altre parti della Palestina, venuti per godersi l’atmosfera festiva e per divertirsi. E così per le vie di Betlemme tutti assieme si ritrovano tanti stranieri di ogni colore e provenienza, qualcuno venuto per fede, altri per curiosità; e molti arabi palestinesi di ogni confessione religiosa. Ecco un ottimo esempio di multiculturalismo!

L’atmosfera natalizia è molto forte: ci sono le lucine appese sopra le strade, un albero gigante in centro alla piazza, e molta gente col cappuccio rosso e la barba bianca. La fede e la spiritualità, al contrario, si sentono poco. In cerca dell’aspetto religioso della faccenda, alle otto di sera vado al Campo dei Pastori, a Beit Sahour, nella campagna fuori Betlemme. Qui ci sono tante piccole cappelle e in ognuna c’è un gruppo differente in preghiera. Un prete barbuto recita all’aperto le sue preghiere in una lingua completamente sconosciuta. Raggiungiamo le rovine di un antico monastero bizantino, e lì assistiamo ad una piccola messa per un pubblico raccolto di una cinquantina di persone. Le letture ed i canti sono in tre lingue diverse: inglese, francese e tedesco. Il giovane prete irlandese dà un breve sermone sul bisogno di pace e di giustizia per i palestinesi; il suo diacono accompagna i canti con una chitarra. Semplicità e raccoglimento.

Chiudiamo la giornata in casa di alcuni amici di Beit Sahour. Stasera siamo una trentina di persone, quasi tutti italiani; c’è un vero cenone di pesce, un finto albero di Natale, e tanta chiacchiera e baccano; a mezzanotte si fa un giro di regali, e poi parte una bella schitarrata di cantautori italiani… insomma, proprio come vuole la tradizione! E ogni tanto, una bella serata fra italiani, fa davvero sentire un po’ a casa.

Coloni fuori controllo

Nell’ultima decina di giorni sembra che l’esercito israeliano abbia perso il controllo della situazione in Cisgiordania. Le ripetute azioni violente dei coloni israeliani, presenti da anni nel sottofondo dell’occupazione militare, hanno all’improvviso acquisito un’ampiezza e una gravità quasi inaudita fino ad ora.

7 Dicembre:  un gruppo di coloni cerca di incendiare la moschea del villaggio di Bruqin: prende fuoco l’ingresso e due automobili parcheggiate fuori. I teppisti scrivono sui muri alcuni slogan razzisti contro gli arabi.

11 Dicembre:  un grosso gruppo di coloni (tra 100 e 200 secondo i resoconti) attacca nella notte il villaggio palestinese di ‘Asira al-Qabiliya. Una decina di case vengono prese di mira con una fitta sassaiuola: alcune finestre si rompono e gli abitanti delle case restano traumatizzati. Due veicoli vengono danneggiati. Secondo un testimone oculare, i coloni erano vestiti in uniformi nere ed armati.

13 Dicembre: un gruppetto di attivisti di estrema destra col favore della notte supera i reticolati alla frontiera con la Giordania e occupa brevemente alcune chiese abbandonate sulla linea di confine, vicino al fiume Giordano, prima di essere arrestati e portati via dalle forze di sicurezza israeliane.

13 Dicembre: una cinquantina di coloni e di attivisti israeliani irrompe in una base militare dell’esercito israeliano vicino alla città di Qalqiliya, in Cisgiordania, lanciando pietre, bruciando copertoni e danneggiando vari veicoli.

14 Dicembre: assalitori ignoti tentano di appiccare il fuoco ad una moschea abbandonata a Gerusalemme Ovest, danneggiandola parzialmente.

15 Dicembre: un gruppo di coloni incendia ed imbratta con scritte razziste la moschea del villaggio palestinese di Burqa, nel governorato di Ramallah.

Gli attacchi intimidatori contro le moschee, le automobili, gli uliveti, e le case stesse dei palestinesi non sono una novità: i coloni più estremisti e radicali li compiono regolarmente da diversi anni, e con frequenza crescente. E in alcuni casi in passato se la sono presa con i palestinesi stessi, causando morti e feriti.

A cosa è legata però questa impennata così fulminante? L’esercito israeliano si è mosso in questi giorni per smantellare una nuova piccola colonia (un outpost*) in Cisgiordania, dichiarato illegale dai tribunali israeliani. E i vari gruppi estremisti di giovani coloni hanno reagito all’impazzata, sfogando la loro collera e frustrazione a destra e a manca, soprattutto sui palestinesi ma anche sui loro stessi soldati.

In particolare l’attacco contro la base militare è un fatto insolito, quasi unico, e ha avuto immediatamente una grande risonanza nella stampa israeliana. Sembra che l’esercito abbia perso il controllo di questi gruppi radicali di attivisti, e non sia in grado di far rispettare la propria autorità. Le reazioni del pubblico israeliano in difesa dei propri soldati sono state immediate, e il governo sta ora discutendo sulla necessità di dare un giro di vite e di reagire più severamente contro questo tipo di aggressioni.

Eh già, intanto però il gruppetto di giovani coloni che ha fatto irruzione nella base militare è stato respinto e scacciato fuori, ma non arrestato. I responsabili degli altri atti non sono stati trovati. L’impunità per questi atti di violenza e di teppismo, e soprattutto per quelli rivolti a danno dei palestinesi, è stata quasi sempre la regola negli ultimi anni. I coloni radicali si sono quindi abituati a farla franca e a poter ripetere questo genere di azioni senza grossi problemi.

Riusciranno il governo e l’esercito a punire queste azioni in modo più severo e a sconfiggere questa cultura dell’impunità? Ma soprattutto, tenendo conto che la coalizione di governo dipende dall’appoggio dei partiti di estrema destra e del movimento dei coloni, avranno davvero la volontà politica di farlo?

*La legge israeliana distingue tra colonie “legali” (settlements, in inglese) e colonie “abusive” o “illegali” (outposts, in inglese). Queste ultime sono in genere di recente creazione e di piccola taglia; sono spesso costituite da un gruppo di roulotte o di container riunito in cima a una collina. E’ importante ricordare che secondo le leggi internazionali tutte le colonie israeliane sono illegali, in quanto costruite su territorio militarmente occupato.

Immagini e paesaggi dall’Herodion

Ecco alcune foto scattate dalla cima dell’Herodion (vedi post precedente).

Una vista dall’alto sulle rovine dell’Herodion; una colonia israeliana ben sviluppata, con le sue case con i tetti rossi aguzzi in stile europeo; il nucleo di una seconda colonia creata di recente, proprio a fianco al sito archeologico; le campagne palestinesi con Betlemme e una puntina di Gerusalemme sullo sfondo; e infine l’ultimo paesino palestinese prima delle colline desertiche e della depressione del Mar Morto.

Scampagnata all’Herodion

Le giornate di sole si susseguono una dopo l’altra, in questo dicembre mite e temperato. E stamattina, assieme ad Anna, partiamo per un’altra delle nostre scampagnate. Andiamo a visitare l’Herodion, un antico palazzo-fortezza costruito da Erode il Grande, e poi conquistato dai romani, nelle aride colline tra Betlemme e il Mar Morto.

Adoro il momento della partenza: quell’attimo in cui chiudi la porta di casa alle tue spalle, esci a piedi sulla via, e inizi il tuo cammino. Il sole splende e ti intiepidisce il volto, una brezza leggera ti accarezza i capelli. Ti sei alzato di buona mattina e hai tutta la giornata di fronte a te. E soprattutto, di fronte a te hai tutte le strade. Le gambe sono il mezzo di locomozione più lento, ma anche quello più flessibile: non ci sono né sensi unici né divieti d’accesso, e poco importa se la strada è asfaltata o sterrata, se si restringe o si allarga, se finisce all’improvviso e si trasforma in un sentiero. Hai tutto il mondo aperto davanti a te, devi solo avere la pazienza di scoprirlo poco a poco, con lentezza.

Il negoziante di fiducia di Anna ci indica la direzione da prendere per uscire dal paese, e noi ci incamminiamo, a passo deciso, ma senza fretta. Superiamo le ultime case della periferia di Beit Sahour, seguiamo la strada in discesa verso una stretta vallata, risaliamo dall’altra parte, superiamo una moschea di campagna, e continuiamo il cammino lungo una serie di paesotti rurali.

Andare a piedi ti permette di incrociare altra gente, e così puoi chiedere informazioni, o scambiare due parole, o anche solo un sorriso. Nell’attraversare il centro dei paesini, la gente ci getta uno sguardo stupito dai balconi delle case o dal loro giardino. Alcuni sembrano sospettosi, forse pensano che siamo israeliani; ma basta un semplice “Salaam Aleikum” o un “Keif Haluku?*” perchè si tranquillizzino e rispondano ai nostri saluti con gentilezza e calore. Anna è già venuta altre volte per questa strada, e mi confida:- All’andata la gente è sempre un po’ confusa, non capisce bene chi sei e che cosa sei venuto a fare, e si limita a salutarti; ma al ritorno tutti fanno a gara a invitarti a casa loro per una tazza di tè o di caffè.

Peccato, perché al ritorno abbiamo in mente di seguire un’altra strada…

Dopo un’oretta e mezza di camminata arriviamo finalmente all’Herodion. Dal di sotto si vede soltanto un colle alto e massiccio di forma conica, con l’aspetto quasi di un vulcano spento; ma in realtà è una struttura artificiale! Erode costruì il suo palazzo in cima ad un’altura, e poi lo fece proteggere ammucchiando terra e roccia ai suoi lati, fino a coprirlo completamente alla vista. E’ proprio come un piccolo vulcano, e le rovine del palazzo sono lì, dentro al cratere. E’ un sito compatto ma maestoso, che ispira rispetto e spinge alla meditazione.

Dalla sua cima gli orizzonti sono aperti ai quattro venti, e i nostri sguardi spaziano lontano, su tutto il territorio circostante.  Verso nord e verso ovest le città di Betlemme e Beit Sahour, e le periferie di Gerusalemme; più vicino, sotto di noi, alcuni paesotti palestinesi, con la loro piccola moschea, le loro case dal tetto piatto, i loro piccoli oliveti, e i campi arati pronti per l’arrivo dell’inverno. Verso est invece il paesaggio è arido e spoglio: le colline nude, color di sabbia, si perdono nella foschia dell’orizzonte, increspate e sinuose, verso i baratri della depressione del Mar Morto.

E infine a sud, te l’ho tenuto nascosto per non rovinarti la sorpresa, ci sono due colonie israeliane. Una già grande e ben sviluppata; l’altra appena creata, ancora temporanea, in attesa di espandersi. E sotto di noi, giusto all’ingresso del sito archeologico, c’è una base militare. E all’entrata sventola alta la bandiera di Israele. Qui siamo in territorio palestinese, ma questo sito è occupato e controllato dagli israeliani. Per il loro governo, questo ed altri siti storici della Cisgiordania hanno sempre rivestito un’importanza strategica: il loro controllo e la loro valorizzazione servono oltre che per scopi culturali e turistici, anche per sottolineare l’antica presenza ebraica su queste terre e quindi per giustificarne la progressiva annessione.

In Terrasanta purtroppo, anche le rovine e le pietre hanno una valenza politica. E pure in una semplice gita di campagna, è difficile, anzi quasi impossibile, dimenticarsi del posto in cui ti trovi e del conflitto e dell’occupazione in corso.

*”La pace sia con voi” e ”Come state?” in arabo.