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Impressioni sfuggenti sulla rivoluzione in Siria

dicembre 28, 2011

Tra tutte le rivoluzioni dei paesi arabi, sicuramente quella in Siria mi colpisce di più, mi tocca personalmente, perché ci ho vissuto per alcuni mesi un paio d’anni fa, e perché ho amato questo paese. Proprio in Siria, a Damasco, ho iniziato a studiare l’arabo e ho mosso i miei primi passi nella scoperta di questa regione del mondo; e la sua bellezza, la sua cultura, e la gentilezza e l’ospitalità della gente mi hanno lasciato un segno indelebile.

La rivoluzione siriana è anche la più incerta, la più sofferta, e forse la più inaspettata. Nei momenti d’oro delle prime rivoluzioni, lo scorso febbraio, subito la caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, chi avrebbe mai immaginato che il fuoco della rivolta avrebbe incendiato la Siria? Ricordo di averne parlato all’epoca con alcuni amici e colleghi, tutti con esperienze dirette nel paese, e le nostre opinioni erano tutte concordanti: in Siria nessuno parla mai di politica, la polizia segreta è onnipresente, il regime tiene il paese stretto nel pugno, non succederà mai nulla.

Poi a marzo, in sordina, iniziano le prime manifestazioni. Al principio in una cittadina di provincia, al confine con la Giordania: Dera’a. Il governo reagisce con la forza bruta, e invia i carroarmati a ristabilire l’ordine. In pochi giorni tutto sarà finito, dicevamo in tanti. E invece le proteste continuano, si estendono, si allargano ad altre zone periferiche del paese, poi ad alcune citta’ importanti, come Homs, Hama o Latakia, infine perfino alla periferia di Damasco.

Per diversi mesi l’opposizione accende nuovi focolai di rivolta nel paese, e il governo interviene per spegnerli con la forza; la fiaccola della resistenza passa di mano in mano, da una città all’altra, dal sud verso l’est fino al centro e al nord del paese. L’esercito non riesce ad occupare tutte le città siriane allo stesso tempo: le circonda e le travolge una alla volta. E nel frattempo nelle prime città prese di mira, passata la tempesta, ritirate le truppe, la gente riprende a scendere in strada, e a sfidare il potere, per una settimana, per due settimane, per un mese, fino a quando i soldati ritornano e il ciclo di violenza e morte ricomincia ancora una volta.

Ricordo con chiarezza quel giorno all’inizio di luglio in cui i giornali hanno riportato la notizia della prima grande manifestazione di massa a Hama. Mi sono detto: se la gente di Hama scende per le piazze, il regime di al-Asad è destinato a cadere. Hama si ribellò già una volta al potere centrale, nel 1982, e fu per questo circondata, bombardata, e annichilita dalle armate del regime. Se la gente di Hama non ha più paura di manifestare – ho pensato – significa che sono pronti ad andare fino in fondo, vuol dire che si sentono sicuri di vincere. Altrimenti sanno bene cosa li aspetta.

Fino alla fine dell’estate la comunità internazionale rimane indifferente al destino dei siriani. Certo, c’è qualche dichiarazione di condanna qua e là, e alcune sanzioni minori: ma nessun paese si muove per forzare il regime ad arrestare la violenza e a ritirare le truppe. Poi all’improvviso in settembre, dopo la caduta di Gheddafi, la situazione si ribalta a sfavore del governo di al-Asad: chiuso l’intervento militare in Libia, le potenze occidentali e i paesi arabi del Golfo si sentono liberi di concentrare le loro attenzioni sulla Siria. E di colpo aumentano le pressioni sul regime: la Turchia, paese amico e alleato fino all’anno scorso, dichiara apertamente la sua ostilità, mentre la Lega Araba si spinge perfino oltre, sospendendo l’adesione della Siria come suo paese membro e imponendo al governo di accettare (almeno formalmente) un’accordo per la tregua e il dialogo con l’opposizione, e l’apertura del paese a una missione internazionale di osservatori arabi incaricata di monitorarne l’attuazione.

Nel frattempo le proteste non si sono ancora spente, anzi l’opposizione ha preso più coraggio. Un numero crescente di militari diserta e si unisce alla rivolta. La violenza degli attacchi e dei contrattacchi cresce, gli oppositori si armano, l’esercito diventa il bersaglio di imboscate e subisce numerose perdite. E aumentano gli episodi di violenza a sfondo confessionale, e con essi il rischio di una vera e propria guerra civile tra le diverse comunità religiose del paese.

Ed eccoci alla fine di dicembre. Il governo siriano guadagna tempo ed è pronto ad ogni colpo basso e sotterfugio pur di non cedere il potere. L’opposizione continua le proteste e moltiplica gli attacchi armati, ma senza riuscire ad ottenere un vantaggio decisivo. I giochi politici e le manovre opache delle varie potenze internazionali e regionali vanno avanti sullo sfondo, senza risultati chiari. E lo stillicidio di attacchi, di morti, e di sparizioni  continua. E la Siria è sull’orlo del precipizio, di un baratro profondo e cupo, ed anzi, ci è già sprofondata. Chi se lo sarebbe immaginato un anno fa, che il popolo siriano avrebbe avuto il coraggio di ribellarsi? Ma chi saprebbe dire, ora, quando questa crisi finirà, e se la rivoluzione porterà davvero a una maggiore libertà e a una vita migliore per i siriani?

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